....MUSEO CIVICO TEATRALE CARLO SCHMIDL...

E poi prendi il treno e vai a Trieste, vai a visitare il Museo civico teatrale di Carlo Schmidl collocato nel Palazzo Gopcevich. L’atrio è ampio, antichi lampadari bianchi dalle luci calde scendono dai soffitti attribuendo a tutto un’aria retrò che ci piace. Appena entriamo veniamo  subito avvolti dal profumo dei caffè e dei cornetti, dal bar che sta alla nostra destra. Se invece saliamo le scale, al primo piano, varcata la soglia, un uomo dagli occhi azzurri e i baffi, con un po’ di cipiglio, ci da il benvenuto dalla parete, racchiuso nella sua cornice dorata : siamo nelle sale espositive di Carlo Schmidt, il signore del quadro, e la fondazione del Museo. Il museo  nacque nel 1924 grazie a questo personaggio, che era  editore musicale, collezionista e commerciante di musica, il quale stipulò una convenzione con il Comune di Trieste rendendo di dominio pubblico la sua raccolta storico-musicale. Proseguendo possiamo vedere le statuette dei vari partecipanti al concorso per la realizzazione del monumento a Giuseppe Verdi ( per la cronaca, vinse quella di Giuseppe seduto) e i manifesti delle opere teatrali. Nelle altre sale, stupende solo per i pavimenti di legno intarsiati e i soffitti, abbiamo fortepiano, manoscritti, edizioni musicali, costumi e cimeli dei musicisti e cantanti a Trieste tra sette e ottocento. Inoltre, ci sono strumenti musicali etnici, africani, dell’estremo oriente e quelli della collezione di Roberto Starec, infine, dopo il laboratorio di un liutaio e il teatro sperimentale chiudiamo con le marionette e i burattini, semplicemente spettacolari. Al secondo piano invece, troviamo l’archivio di Giorgio Strehler, grande regista teatrale italiano e strumenti musicali meccanici. Un museo che affascina, che ci porta su quei palchi dove la musica si suonava per davvero, circondati da tanti strumenti, le note sono ferme nell’aria eppure, quando guardi negli occhi di quei burattini prima di uscire, sono talmente vivi che non sai se ti hanno fatto l’occhiolino o l’hai solo immaginato.





Photo by Paola Iervolino

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